Pubblicato da: luigivassallo | 16 giugno 2023

La dissoluzione dell’Estetica – 2. Estetica e Psicologia

2.Estetica e Psicologia


La psicologia dell’arte intende applicare i risultati, anche quelli sperimentali, della ricerca
psicologica al processo creativo, ai prodotti artistici, ai rapporti tra artista e opera, alle
relazioni tra opera d’arte e suoi fruitori.

Iniziatore della psicologia scientifica dell’arte è considerato Theodor Gustav Fechner (nato
nel 1801, morto nel 1887), il quale muove dall’idea metafisica che l’universo sia un insieme di unità fisiche, ciascuna con diverso grado di complessità, e che a quest’insieme fisico corrisponda un insieme di unità psichiche. In questa visione il fisico si rivela come l’aspetto visibile dello spirituale, mentre, a loro volta, le unità psichiche umane si rivelano come gli elementi costitutivi di una superiore unità psichica. L’unità di misura dello psichico non può essere ritrovata restando nel campo dello psichico, ma deve essere cercata con un’indagine nel fisico.

Fechner intende, infatti, stabilire le leggi per un rapporto scientifico tra stimolo fisico e sensazione e crede di poter misurare la grandezza soggettiva di una sensazione col
logaritmo della grandezza fisica dello stimolo che l’ha provocata.


Sigmund Freud (nato nel 1856, morto nel 1939) usa le ricerche psicologiche per decifrare il messaggio di un’opera d‟arte (ossia per rintracciarne il contenuto latente dietro quello
manifesto) e per chiarire i rapporti tra opera d’arte e artista, facendo particolare attenzione
all’infanzia di quest’ultimo.

Per Freud l’arte è un appagamento sostitutivo di un rapporto interrotto con la realtà, ossia della condizione dell’artista che, in disaccordo con la vita reale, cerca di realizzare nella fantasia i suoi desideri. L’artista, secondo Freud, si distacca dalla realtà perché questa non lo soddisfa e realizza i suoi desideri nella sua fantasia, ma proprio qui trova la via per tornare alla realtà, perché le sue fantasie, grazie alle sue attitudini di artista, si sono trasformate in “cose vere”. In questo modo l’artista, senza impegnarsi nella faticosa e pericolosa impresa di cambiare il mondo che non gli piace, riesce ugualmente a trasformarlo, ricreandolo nella sua fantasia. Ma ci riesce perché gli altri uomini, che sono
ugualmente insoddisfatti del mondo reale, attribuiscono alle cose della fantasia dell’artista il valore di immagini riflesse di una realtà.

Così l‟arte si colloca tra la realtà che frustra i desideri e la fantasia che li appaga, in virtù della sua capacità di sublimazione. Freud si rende conto che l’estetica non riesce a dare spiegazioni convincenti e inoppugnabili sull’origine e sulla natura della bellezza né sulla sua utilità per la civiltà e tuttavia prende atto del fatto che la civiltà non sa fare a meno della bellezza.

Carl Gustav Jung (nato nel 1875, morto nel 1961). Jung intuisce nelle posizioni freudiane
sull’arte il rischio di ridurre ogni artista a un caso clinico e ogni opera d’arte a una malattia.
Per lui l’opera d’arte è una produzione che va oltre l’individuo, anzi la vera opera d’arte è
quella che si è liberata dall’ostacolo di tutto ciò che sa di individuo o di personale. Il senso
di una vera opera d’arte è in essa e non nelle condizioni umane (di quell’artista particolare)
che ne hanno preceduto la genesi: l’opera d‟arte, si potrebbe dire, si nutre delle energie e
delle attitudini personali dell’artista e le utilizza secondo proprie leggi al fine di divenire
essa ciò che essa vuole.

L’origine dell’opera d‟arte, secondo Jung, non va rintracciata nell’inconscio personale dell’autore, ma nell’inconscio collettivo, che conserva la possibilità di rappresentazione mediante simboli e archetipi. Questo non vuol dire che esistano rappresentazioni innate, ma solo che esistono innate possibilità di rappresentazione, le quali possono essere esperite (ed essere percepite realizzate) solo in un’opera d’arte finita. Le immagini primordiali, depositate nell’inconscio collettivo, si scatenano quando la fantasia creatrice si esercita liberamente.


Karl Jaspers (nato nel 1883, morto nel 1969) cerca di collegare le fasi salienti della
produzione artistica a quelle della vita patologica degli autori. Egli precisa, tuttavia, che lo
spirito creativo dell’artista, anche quando sia condizionato dalla malattia (e si tratta,
ovviamente, prevalentemente di malattia mentale), è sempre al di là dell’opposizione tra ciò che è normale e ciò che è anormale. A questo proposito, Jaspers usa la metafora della perla, la quale, certo, si trova nella conchiglia proprio per un difetto della conchiglia; tuttavia, nessuno, mentre ammira la bellezza della perla, pensa al difetto della conchiglia. Allo stesso modo, per quanto un’opera d‟arte sia stata condizionata da un “difetto” (da una malattia, ad esempio la schizofrenia) dell’artista, nessuno, nell’ammirarla, si sofferma sulla malattia del suo autore.

Rudolph Arnheim (nato nel 1904, morto nel 2007), storico dell‟arte e psicologo, si è
interessato sin da giovane di teoria estetica cinematografica. Egli cerca di analizzare il
modello psicologico che sta alla base della percezione visiva di un’opera d‟arte e sostiene
che il processo visivo non si esaurisce nella registrazione meccanica di elementi
frammentari, bensì si costituisce nella percezione di strutture significative, che, appunto,
danno significato a quegli elementi frammentari. Secondo lui nell’arte si realizza una sorta
di “transustanziazione” della forma in espressione significativa: la forma cioè viene
dall’intuizione trasformata in espressione significativa pur conservando la sua apparenza.


Ernst Gombrich (nato nel 1909, morto nel 2001), studioso e divulgatore di storia dell’arte,
intende indagare i meccanismi psicologici (oltre che storici e culturali) che stanno alla base
della fruizione di un’opera d’arte e che fanno guardare l’opera in un modo o nell’altro.

Delle ricerche psicoanalitiche e del loro impatto sulle teorie dell’arte Gombrich rifiuta quelle che nell’opera d’arte insistono a cercare contenuti inconsci per i quali la forma sarebbe solo un involucro e accetta invece la tesi che i contenuti inconsci siano comunicabili solo attraverso strutture formali preesistenti ad essi. Su questa base egli giunge a teorizzare la specificità del linguaggio artistico, frutto da un lato della “convenzione” imposta da un dato ambiente storico-culturale e, dall’altro, della “correzione” operata dall’artista nel caso concreto.


Gombrich ritiene, appunto, che la storia delle scoperte visive, in un modo abbastanza simile alla storia delle scoperte scientifiche, segua il ritmo del processo “schema – correzione”: in altre parole, gli artisti creano continuamente nuovi codici, ogni volta che le loro ipotesi di partenza non producano risultati conformi alle aspettative.


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