Pubblicato da: luigivassallo | 23 dicembre 2009

Verità assolute e verità relative

VERITA’ ASSOLUTE E VERITA’ RELATIVE

C’è un testo greco (forse del V secolo prima di Cristo, forse di un’epoca più tarda) tramandato col titolo Dissòi lògoi  (in italiano Ragionamenti duplici). In esso si riportano opposte opinioni sul bene e il male, sul bello e il brutto, sul giusto e l’ingiusto ecc. Alla base di questi duplici ragionamenti e degli esempi che vi sono raccolti c’è la contrapposizione tra chi ritiene inconciliabili i due termini messi a confronto e chi ritiene che non ci sia inconciliabilità assoluta ma solo valutazione relativa che fa pendere il giudizio ora a favore di un termine ora a favore dell’altro.

Così, a proposito di bene e male, si legge nel testo che alcuni dicono che una cosa è il bene e tutt’altra cosa è il male, mentre altri dicono che si tratta della stessa cosa che per qualcuno è bene e per qualche altro male e che per la medesima persona talvolta è bene e altre volte è male.

Troviamo qui sintetizzata la contrapposizione tra verità assoluta e verità relativa. L’anonimo autore del testo dichiara di essere d’accordo con quelli che pensano che una medesima cosa sia per alcuni bene e per altri male e, a sostegno di questa sua presa di posizione (che ripete poi per le altre coppie di termini etici, come bello/brutto, giusto/ingiusto ecc.), cita una serie di esempi:

La malattia è un male per l’ammalato, ma è un bene per i medici. La morte è un male per chi muore, ma è un bene per gli impresari funebri e per i becchini. Un’agricoltura che produce frutti in abbondanza è un bene per i contadini, ma è un male per i commercianti. (…) Che il ferro si arrugginisca, perda il filo e si spezzi è un male per gli altri, ma un bene per il fabbro. E che si rompa il vaso è un male per gli altri, ma un bene per i vasai.

Lo stesso evento, dunque, stando alla posizione dell’anonimo autore, può essere definito bene o male a seconda di chi lo esamina o, per essere più fedeli alla tesi dell’anonimo, a seconda degli effetti che produce su chi lo esamina.

E allora cosa diremo? che esistono verità assolute (che sono vere a prescindere dagli effetti piacevoli o spiacevoli su di noi)? o concorderemo con l’anonimo greco e con la sua tesi che è la nostra condizione (materiale o psicologica) che ci fa dare valore (positivo o negativo) al singolo evento?

Assoluto etimologicamente vuol dire sciolto da qualsiasi legame, sicché il suo valore non dipende da effetti o circostanze, ma è, appunto, absolutus. Al contrario relativo esige etimologicamente un riferimento (a qualcuno, a qualcosa, a un’idea ecc.) senza il quale ciò che è relativo non potrebbe avere nessun valore: relativus, appunto.

Ma questa contrapposizione tra assoluto e relativo è così irriducibile, come appare in certi scontri ideologici anche dei nostri giorni tra chi sostiene l’irrinunciabilità e la non negoziabilità di certi principi assoluti e chi crede nella pratica del dialogo per la ricerca di punti di equilibrio sempre provvisori e sempre superabili?

Anzitutto, se prendiamo in considerazione la sostanza di assoluto, dobbiamo ammettere che tutta la sua “assolutezza” è relativa a chi l’afferma: infatti, se non sono tutti a riconoscere il valore assoluto di determinati principi, rivendicati da alcuni (pochi o molti, in ogni caso non tutti) come assoluti, vuol dire che il valore di tali principi è relativo (alla cultura nella quale essi sono assunti come irrinunciabili e non negoziabili).

Per restare all’etimologia di absolutus, un assoluto, se c’è, deve essere sciolto da qualsiasi cultura, indipendente da qualsiasi persona, indifferente a qualsiasi esito. M un assoluto siffatto, non entrando nell’orizzonte precario della nostra limitatezza, esisterebbe (rubando a Spinoza una sua distinzione) sub specie aeternitatis e non sub specie societatis, non esisterebbe, cioè, nella nostra dimensione umana e continuerebbe ad esistere nella sua dimensione eterna che non ci appartiene (o, se si preferisce, alla quale noi non apparteniamo).

Tornando ora a relativo e alla sua svalutazione da parte di chi sostiene verità assolute e guarda al relativismo come a una degenerazione intellettualistica, l’etimologia aggancia ciò che è relativo alla concretezza di un riferimento che gli consente di esistere a pieno titolo sub specie societatis, nella società degli esseri umani.

Questo essere “relativo” è una forma di inter-esse, cioè di “esserci, prendervi parte …”.  Insomma chi sostiene “verità relative” le sostiene perché vi prende parte, mentre chi sostiene “verità assolute” le assume a prescindere.

Ora la politica, benché sia ai nostri tempi spesso urlata e trasformata in un’ordalia, non è altro (o, almeno, non dovrebbe essere altro) che la ricerca di mediazioni ed equilibri provvisori tra “interessi” di parte, tutti legittimi ma tutti “relativi” (inclusi quelli che pretendono, o fingono di pretendere, di essere “assoluti”). Se vissuta così la politica potrebbe essere una manifestazione alta della nostra dimensione di uomini sub specie societatis; diversamente essa rischia, al di là delle intenzioni di chi si rifugia nell’ideologia dell’assoluto, di ridursi ad una scimmiottatura della dimensione sub specie aeternitatis che esclude ogni inter-esse, ogni forma di “esserci” e di “prendervi parte” di noi uomini nella nostra finitezza, nella nostra limitatezza, nella nostra precarietà.

Per concludere queste riflessioni, posso aprirmi al dialogo (cioè al confronto tra i ragionamenti diversi), e conseguentemente posso aprirmi all’altro (cioè posso riconoscere l’altro nella sua diversità da me e riconoscere me stesso nella sua diversità da lui), solo se ammetto che il mio punto di vista è una “verità relativa”: non nel senso che sia una falsa verità (nel qual caso il dialogo dovrebbe aiutarmi a liberarmene), ma nel senso che è una verità parziale, storicamente determinata (nel qual caso il dialogo dovrebbe aiutarmi ad integrarla con altre verità parziali sostenute da altri).

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Risposte

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