E’ Pasqua, è Pasqua!
La voce dalla TV mi arriva sempre più fioca ed ovattata, mentre il mio corpo sprofonda nella poltrona abbandonandosi al torpore del dopopranzo.
“Gli italiani si preparano a una Pasqua blindata in casa… Continuano le disdette delle prenotazioni per il vaccino a seguito delle morti di alcuni vaccinati… Luna Rossa è stata battuta definitivamente dai neozelandesi…”.
Mia madre sta trafficando in cucina disponendo con cura nei ruoti (a Nola le teglie si chiamano ruoti) l’impasto che ha preparato nei giorni scorsi e che ha lasciato lievitare sotto un’apposita coperta di lana che da anni riserva a quest’operazione. Ogni ruoto contiene un “casatiello”, una sorta di panettone dolce: ce n’è uno per me, uno per mio fratello, uno per una nostra commarella e uno più grosso per tutta la famiglia. E ci sono ancora altri due o tre ruoti in cui finirà l’impasto per le pastiere napoletane, una per noi, l’altra o le altre per amici o parenti.
Le mani sapienti di mia madre sistemano nei ruoti casatielli e pastiere dando loro una forma accattivante e segnandoli con un segno della croce, creando un legame sacro e simbolico tra il lavoro di quelle mani, i frutti della terra (grano dolce macerato, farina, uova, ricotta ecc.) e la Pasqua di Resurrezione, che si annuncia di lì a qualche giorno quando la festa religiosa nella chiesa si completerà nella sacralità della festa gastronomica a casa, dove, prima di compiacerci e soddisfarci della lasagna e dei dolci preparati da mia madre, mia nonna benedirà tutti noi spruzzandoci addosso con un rametto di olivo acqua benedetta portata dalla chiesa.
Oggi è venerdì santo. Fra poco mia madre mi manderà dalla nostra salumiera a infornare i ruoti coi dolci nel forno a legna, ma prima traccerà con un chiodo su ogni ruoto un segno noto solo a lei, affinché nessuna delle comari del vicolo, che da anni gareggiano a Pasqua a chi produca il casatiello o la pastiera migliore, possa portarsi via come proprio uno dei suoi ruoti, per vantarsi, una volta tanto, di essere stata a Pasqua la più brava in cucina.
È venerdì santo. Mia moglie sta trafficando in cucina, ma non si dà da fare con i casatielli, che non ha avuto modo di apprezzare da ragazza o da giovane, come invece ho fatto io: sua madre era una brava insegnante nel suo lavoro a scuola, ma era piuttosto maldestra in cucina. Mia moglie si cimenta con la pastiera, che ha imparato a preparare stando accanto a mia madre, la quale, forse, temeva di lasciare il suo primo figlio nelle mani inesperte di quella giovane nuora e allora si dava da fare per trasmetterle buone nozioni di culinaria. Così mia moglie è diventata brava nel preparare pastiere, ma non proprio come mia madre. Probabilmente mia madre non le ha trasmesso tutti i suoi segreti, un po’ perché non usava ricette scritte, un po’ perché non voleva che la nuora la soppiantasse completamente nei piaceri della vita del proprio primo figlio. E così mia madre si è portata nella tomba un po’ dei suoi segreti e, per quanto mia moglie si dia da fare ai fornelli, sono rimaste inarrivabili le patate fritte e la pastiera di mia madre.
Oggi è venerdì santo, non si sentono i rintocchi delle campane: i battagli sono stati fasciati con teli in modo che le campane possano emettere solo suoni sordi e smorzati e le ore delle varie funzioni religiose sono annunciate dal sacrestano, che gira per strade e vicoli del nostro quartiere agitando una cassetta di legno in cui una pallina, sbattuta di qua e di là, emette rumori sordi.
Il sacrestano continua ad andare in giro, indifferente al suono sordo della cassetta, perché, essendo sordomuto dalla nascita, nessun suono, né sordo né squillante può interessarlo.
E noi bambini o ragazzi siamo sufficientemente sadici per prendere in giro la sua sordità, tirando di nascosto le corde delle campane in modo che squillino quando non è ora oppure nascondendoci nei confessionali della chiesa la sera quando lui chiude tutto, per poi uscire e lasciare aperta la porta della chiesa, sicché al mattino a lui non resta che imprecare senza parole contro chi gli ha giocato quello scherzo.
Nella settimana santa, mentre mia madre è impegnata a creare capolavori culinari, io sono impegnato come chierichetto nelle funzioni religiose, assistendo, con altri bambini o ragazzi, il sacerdote nella celebrazione dei vari riti. La parte che ci piace di più è quella di addetti ai candelabri, una sorta di lunga canna di metallo che porta in cima una candela accesa. Due chierichetti li impugnano come lance per tutta la celebrazione. Ma ci siamo inventati un gioco, per dimenticare il fastidio di restare in ginocchio per tutto il rito: ogni tanto stacchiamo le mani dal candelabro e lasciamo la canna di metallo in equilibrio sul pavimento sulla sua piccola base. Perde quello la cui canna crolla a terra per prima.
Il sacerdote celebra con le spalle ai fedeli, perché solo fra diversi anni una riforma dei riti introdurrà la celebrazione col volto verso i fedeli. Eppure don Andrea, il nostro parroco, quando rientreremo in sacrestia non sbaglierà mai a individuare il “colpevole” del candelabro caduto e lo gratificherà con una “carocchia” sulla testa, cioè con un pugno dato con la nocca del dito medio.
Finalmente è domenica: si “scioglie la gloria”, si liberano i battagli dai teli, si ripone per l’anno prossimo la cassetta di legno, le campane annunciano festose che Cristo è risorto e che a pranzo mangeremo cose buone, mai viste durante l’anno.
E domani, lunedì, ce ne andremo a godere la pasquetta. Partiamo, un gruppo di ragazzini, ognuno con una sacca con dentro un rustico (impasto di uovo sodo e pezzetti di salame) e una pizza di spaghetti fritti nelle uova. Quasi sempre dimentichiamo di portarci da bere, ma non dimentichiamo un pallone: rigorosamente di plastica, non uno vero di cuoio, perché costerebbe troppo.
Ce ne andiamo sulla collina di Cicala, dove dicono sia nato Giordano Bruno. Quando sarò grande e mi dedicherò a studi di filologia greca e latina, scoprirò che Cicala non c’entra niente con le cicale ma è solo la pronuncia un po’ storpiata dell’espressione greca “ghe kalè” che vuol dire “bella terra”.
Ed è veramente una bella terra questa collina di Cicala verso la quale ci inerpichiamo. Tranne quella volta che ci sbarrò il sentiero un mulo ostinato, sfuggito al suo padrone o forse mandato proprio da questo contro di noi perché gli eravamo antipatici. E così dovemmo scendere per la china e risalire per un altro versante.
E, dopo aver consumato la merenda consegnataci dalle nostre mamme, tutti sullo spiazzo del castello diroccato a giocare col pallone di plastica, immaginandoci di essere uno di quei calciatori di cui collezioniamo le figure Panini. A volte, per arricchire la nostra collezione, scambiamo le figure tra noi inventandoci una sorta di borsa valori, nella quale ognuno tenta di alzare il valore di scambio delle proprie figurine e di abbassare quello delle figurine degli altri. Oppure ce le giochiamo, le figurine, in vari giochi di abilità.
E così, sullo spiazzo del castello diroccato, ci sentiamo campioni di calcio, fino a quando il pallone di plastica, calciato con troppa forza da uno di noi, precipita giù per la china, tornando alla nostra Nola molto prima di noi.
“Luigi… Luigi… Dormi ancora?”. È mia moglie che mi chiama dalla cucina. “Mi dai una mano nelle pulizie di Pasqua?”.
Apro gli occhi a fatica nella poltrona, ma so già che quella di mia moglie non è una domanda, è solo il travestimento retorico di un comando. Se non mi credete, provate a risponderle NO.